Maria Moramarco, voce luminosa del Sud
Certo, Maria Moramarco è nata ad Altamura nel ‘60 ed è cresciuta nella “Leonessa di Puglia” ove insegna Lingue al Liceo “Cagnazzi”, ma la sua stupenda, calda, limpida e luminosa voce è ormai prezioso patrimonio di tutto il Meridione d’Italia.
Con il suo canto ti emoziona. Riesce a snidare ricordi di una civiltà contadina autentica, quella di una povertà dignitosa, senza lotte per i diritti, ma solo di un ripiegarsi servile, caratterizzata da tanta rassegnazione. E diventa sprone alla meditazione per una società a misura d’uomo il canto di Maria, è stimolo per una società con meno disuguaglianze e di più dignità umana. La sua voce rievoca le attese, forse in parte tuttora inappagate, di quel vasto popolo di cafoni, di una Italia arretrata e abbandonata, di un Sud emarginato e sottomesso alle angherie dei ceti più abbienti e dei padroni. La Lucania e la Calabria insieme alla Puglia e alla Campania hanno vissuto secoli di miseria, di emigrazione, di forte disoccupazione e di sopravvivenza. Di prepotenze.
Si fa protesta e impegno civile il messaggio del gruppo musicale UARAGNIAUN che accompagna la solista Maria Moramarco. Maria va oltre il canto in quanto tale, si fa ricercatrice di fonti storiche, di tradizioni popolari, indaga sull’agire quotidiano di un tempo. Con i suoi amici, quelli con l’odore delle note musicali addosso in primis, fonda sin dal lontano 1977 diversi sodalizi per approfondire e riproporre, con la sua straordinaria voce, storia e storie della sua “Amara Terra” murgiana, intrisa di sudore dei contadini e braccianti, ultima ruota del carro sociale come diceva Di Vittorio.
Maria è fortunata, incontra sulla sua strada validi professionisti che la stimolano a continuare, per non disperdere un patrimonio di tradizioni a partire dalla sua cerchia familiare, nel percorso di rivisitazione di canti e musiche dell’antica murgia barese, terra cerniera con la vicina “Città dei Sassi”, terra di “Un popolo di formiche” come diceva Tommaso Fiore.
E alla RAI non sfugge il talento che possiede Maria: collabora in diverse trasmissioni e concerti che la riconsegnano popolare in tutta Italia, incide CD dei suoi canti, delle sue filastrocche, delle sue interpretazioni, delle sue performance. La sua voce nobilita la potenza espressiva del dialetto, a lungo considerato sub cultura, da una società arida e distratta verso qualsiasi manifestazione dello spirito.
Con il gruppo musicale UARAGNIUAN nasce nel 2018 un vero e proprio documento storico, nasce il libro “Perché sono Marxista”, ballate – canzoni – poesie: uno spaccato di storia politica e sociale degli anni ’70, nel ricordo dell’azione terrena svolta dall’On. Fabio Perinei. Si tratta di una interessante ed originale pubblicazione nella quale Maria Moramarco allega un suo CD di canti e, tra questi, interpreta la condizione disumana dei lavoratori del Tavoliere delle Puglie, raccontata da Matteo Salvatore, “Lu soprastante”.
Sicuramente è un privilegio “avere tra le mani” il volume di Maria Moramarco, “Paràule” – testi e musiche dal repertorio Uaragniaun a cura di Luigi Bolognese e Silvio Teot, piazzaedizioni, Altamura 2008: un interessante viaggio di liriche devozionali e di ninna nanne, di nenie, di canti liturgici e di preghiere d’altri tempi, che nella interpretazione di Maria Moramarco diventano contemplazioni, estasi che ti assale. La voce di Maria infatti è di forte impatto comunicativo e di grande fascinazione, magica. Interessante è la pubblicazione nel testo “Paràule” delle partiture dei canti ricercati, un volume di storia sociale di una umanità sia pure lontana che non può scomparire.
Mi ha commosso, lo confesso, “Giacchenidd lu puasturidd” nel CD “Cillacilla” di Maria Moramarco col gruppo Uaragniaun: “pastore è nato e pastore deve morire”, musica, testo e interpretazione brillanti, che mi ricorda quella “tratta dei calzoni corti” di una murgia pietraia e matrigna raccontata anche dal mio amico reverendo don Angelo Casino (1931-2013) nel suo libro “Il solitario della Murgia”. Giacchenidd va raccontato soprattutto ai nostri ragazzi perché ha tante cose da dire.
Così scrive nel suo libro “Paràule” Maria Moramarco: […] Lontana dall’idea di voler issare la bandiera della conservazione del dialetto sotto vuoto spinto e consapevole che i fenomeni linguistici sono naturalmente in evoluzione e cambiamento continuo, vi passo le parole perchè non siano cancellate, dimenticate, annullate, perché capire l’importanza di ciò che è appartenuto a chi ci ha preceduto, ci rende in qualche modo più ricchi […].
La storia infatti è ricostruzione del passato, di ciò che è accaduto e la ricerca non può e non deve essere volta al mero soddisfacimento della curiosità personale, essa invece deve servire anche agli altri, così come d’altronde, noi ci serviamo delle ricerche altrui: la cultura è scambio, è offerta agli altri perché procedano oltre. I modi della comunicazione possono essere vari, dall’insegnamento orale allo scritto, dall’articolo di rivista al libro, dal canto all’attività teatrale. Tutto ciò che è relativo all’uomo, che lo riguarda, è oggetto della storia. La storia è memoria di ciò che è stato, e, come afferma Maria Moramarco, “ci rende in qualche modo più ricchi”.
Auguri!
Michele Gismundo
Don Angelo Casino ha fornito tanti particolari di vita vissuta in prima persona sulla nostra Murgia dal primo albeggiare fino al tramonto del sole al seguito di un gregge di pecore. La sua infanzia non e’ stata diversa da quella di tanti suoi coetanei prima dell’entrata in seminario. Era un modo per contribuire personalmente alle esigenze familiari e per essere distolti da una vita vissuta vagabondando per strada. Quella esperienza cruda alla stregua della vita animale fatta di ritmi esistenziali analoghi. Infatti ci si recava al seguito delle percore guidate da un massaro, obbedendo ai suoi cenni, ascoltando i suoi racconti, sostando per l’abbeveraggio presso le cisterne secolari che conservavano l’acqua piovana, ancora presenti sulla murgia. E la sete, sotto il sole implacabile dell’estate, che non veniva mai saziata pienamente. Al ritorno del gregge alla masseria, col calare del sole, dopo aver appagato la fame con una cialda, ci si addormentava su un saccone di foglie di mais sotto una rozza coperta che mitigava lo sbalzo della temperatura della notte. Una quindicina di giorni sempre uguali e poi una domenica di riposo al paese per ritornare l’indomani al ” travaglio usato”.