La Tarantella, la poesia danzata d’una passione meridionale
Il nome Tarantèlla appare per la prima volta nel 1608 in uno spartito musicale trascritto da Foriano Pico. Questo ci porta a credere che già prima esistesse un ballo o un’aria musicale con questo nome o con questa funzione. Infatti, come narra il medico tedesco dell’Ottocento Friedrich Karl Justus Hecker nel suo ”Danzimania”, «fin dal secolo XV si manifestò nelle Puglie una strana malattia nervosa, attribuita al morso velenoso di un ragno chiamato Tarantola, per la quale i morsicati, o anche per genio epidemico quei che temevano di esserlo stati, divenivano melanconici quasi stupefatti e appena capaci di ragione. […] Era inoltre comune opinione che il veleno della Tarantola, mercè la musica e la danza venisse distribuito a tutto il corpo ed eliminato col sudore per via della pelle. Per conseguenza si credé che la musica fosse l’unico rimedio contro il morso del malefico ragno, e fin dal principio del secolo XVII intere turbe di suonatori giravano all’uopo per le città e per le campagne durante mesi d’estate, nei quali specialmente veniva intrapresa la cura degli ammalati che accorrevano a frotte a cercare nel ballo un farmaco ai loro tormenti. […] oggidì, benché scomparsa da lungo tempo la malattia conservasi presso di loro la Tarantèlla come una musica particolare per ballo, i cui tempo si fa sempre più celere e stretto».
In effetti, era possibile che i contadini fossero morsicati da un ragno mentre lavoravano nei campi e manifestassero sintomi simili ad attacchi epilettici. Tuttavia il vero responsabile non è la Tarantola (Lycosa tarentula), bensì il piccolo Latrodectes tredecimguttatus (un ragnetto chiamato anche Malmignatta, appartenente allo stesso genere della vedova nera americana, con il corpo nero e rossiccio, ovale, e lunghe zampe sottili).
Secondo alcuni studiosi, la Tarantèlla deriva da una danza in onore del dio Dionisio nei baccanali: la Sicinnide. Durante queste feste i danzatori spesso usavano una veste detta Tarantinula o Tarantinidion. Conferme si trovano sia su molti vasi greci sia nella famosa “stanza della parete nera” di Pompei, dove sono raffigurati satiri danzanti nelle tipiche movenze della Tarantèlla. Questi culti arrivarono in Italia a seguito dei flussi migratori che videro stabilirsi gli Spartani e gli Achei in Puglia, successivamente anche in Campania e verso lo stretto di Messina (i Calcidesi), in Calabria (gli Achei del Peloponneso), in Sicilia (i Dori).
Secondo altri studiosi il ballo deriva da “Piccola Taranta”, una danza estatica e/o di possessione e/o di prevenzione, capace di autoindurre stati di trance. È il Tarantismo, una specie di esorcismo coreutico-musicale. In effetti, la neurofarmacologia ha dato una spiegazione logica al fenomeno del tarantismo: i movimenti convulsi ed estenuanti della danza provocano nel corpo il rilascio di endorfine la cui azione, unita all’assunzione di molta acqua per indurre il vomito o la sudorazione, risulta lenitiva del morso del ragno, conducendo talvolta alla guarigione clinica.
Ma le origini del tarantismo le ritroviamo anche nel mondo antico classico, dove i riti dionisiaci avevano una funzione catartica. Già Platone in due opere, Fedro ed Eutidemo, descrive un fenomeno dell’antica Grecia simile al tarantismo. Altro accenno lo ritroviamo nel Sertum papale de venenis, scritto nel 1362 da Guglielmo Marra da Padova, dove si legge «quando il malato ode una melodia che coincide con il canto del ragno da cui è stato morso, ne trova giovamento». Altre indicazioni sono in Johannes Tinctoris (1450), Antonio De Ferrariis (1513), Ferdinando Ponzetti (1516) e così via.
Se la medicina, più tardi,spiegheràil fenomeno come disturbo mentale di tipo isterico, la Chiesa di Roma giudicherà queste manifestazioni come possessione diabolica (il Concilio di Trento bandisce il ritmo della Tarantèlla). Per questo si deliberò la guarigione del morso attraverso la preghiera e l’intercessione dei santi. Grazie a una leggenda, san Paolo di Tarso diventa protettore dei tarantati. Secondo la leggenda egli giunse in Salento e, per ringraziare dell’ospitalità ricevuta, lasciò in dono il potere di guaritore dai morsi degli insetti e dei rettili velenosi agli abitanti di Galatina (Lecce) rendendoli peraltro immuni al loro veleno.
L’antropologo Ernesto De Martino nell’estate del 1959, con un etnomusicologo, uno psichiatra e un sociologo, analizzò il fenomeno da un punto di vista storico, culturale e religioso, compilando il saggio La terra del rimorso. La conclusione a cui pervenne De Martino è quella del tarantismo come un “male culturale”, un’isteria sociale, escludendo reali fenomeni di aracnidismo. Il morso del ragno, diventa per De Martino il simbolo di tutto ciò che costituisce trauma o frustrazione economica, sociale, psichica o sessuale.
Col tempo, il tarantismo si traveste da Tarantèlla, per poi avviarsi a diventare danza sociale, in assenza del tarantato. Diventa così festa, trasformandosi in un ballo popolare del Sud Italia, differenziandosi secondo la zona. Esistono infatti molti sottogruppi stilistici con una propria denominazione: Viddhaneddha, Pizzica pizzica, Ballë ‘n copp’o tammurrë, Zumpareddu, Tarascone, Zumparella, Pastorale e così via.
Oggi laTarantèlla è nel Meridione storia che si materializza, è orgoglio per le proprie origini.
Renzo Paternoster