La luna e i falò
Nel tardo pomeriggio del giorno di San Giuseppe mi sono perso tra i mandorli in fiore, gli uliveti, le vigne e le boscaglie della Murgia Santeramana la cui morfologia è subito apparsa meno brulla e meno arida di quella dell’area altamurana.
Attraversando le stradine, in alcuni punti sterrate, di contrada Curto La Fica o Serrone, fra la via per Laterza e quella per Gioia del Colle, mi sono ritrovato nel bosco di quercine e roverelle della Masseria Cavatelli, il cui impianto originario in pietra potrebbe risalire al seicento.
“La sede di una vecchia locanda, forse!”, si affrettano a riferire i nuovi proprietari che, con l’entusiasmo del nuovo progetto di vita, si sono da subito preoccupati di alleggerire le querce secolari dei rami secchi (per favorire la penetrazione della luce e del sole) ed il gelso imponente che si prepara a fare ombra sul tavolo in cemento.
I robusti rami di ritaglio accatastati e le fascine erano già pronti per illuminare la notte di quell’angolo di paradiso, alla vigilia della primavera, mentre dietro le due enormi querce, la luna aspettava di spiare i nuovi scoppiettanti bagliori e la fiamma sprigionata nel buio.
E la stagione primaverile, dalle nostre parti, viene salutata con i fuochi, quelli di San Giuseppe e quelli dell’Annunziata, secondo rituali che si stanno “bruciando” con la burocrazia e con la vita in verticale. Tradizioni che, dopo aver resistito nel tempo, si stanno perdendo nel nostro tempo, complici pandemie e guerre.
Non va sottovalutata, poi, l’attuale posizione della Chiesa, preoccupata di eliminare/limitare riti e processioni così annientandone anche i significati spirituali ed “addormentando” l’antica tradizione, strettamente legata al mondo agropastorale ed ai cicli agricoli.
I falò nascono come rito propiziatorio, o come rituale di purificazione e consacrazione e, quindi, all’allontanamento degli influssi malefici e delle avversità. Erano, tuttavia, utili anche per smaltire gli enormi quantitativi di rami prodotti dalla potatura degli oliveti che si concludevano proprio a marzo. I falò simboleggiano la volontà di abbandonare tutto ciò che appartiene ai mesi passati e rompere il freddo in prospettiva del rinnovo con il ritorno della primavera.
Il fuoco era una occasione per ritrovarsi e stare insieme in allegria.
Il 19 marzo si festeggiava San Giuseppe con l’accensione dei falò nei vari rioni. Il 25 marzo, in onore della Santissima Annunziata, si ripeteva il rito dell’accensione dei fuochi propiziatori, sulle varie piazzette, o nei claustri dei paesi dell’entroterra.
Si cantava intorno ai falò le “lodi a Maria”, si “arrostivano” ceci, fave, patate e salsicce. Si gustavano taralli e beveva vino, al suono dell’organetto. Quando la fiamma era esaurita e la legna era ben consumata, le famiglie ricolmavano i bracieri con la brace ritenuta benedetta. E la luna, sorniona, accompagnava la magia di quei calorosi momenti di spiritualità, preghiera, allegria e semplicità.
La tradizione dei falò fa parte di quel ricco patrimonio immateriale che appartiene soprattutto alle genti del sud che dovremo alimentare e, a nostra volta, tramandare.
Gianni Moramarco