Ricordo di Ninì Marvulli (1932-2023)
sognatore con i piedi a terra
e la testa fra le nuvole
di Giuseppe Bolognese
Molti anni fa – più di quanti è decoroso ricordare, ammoniva l’arguto preside nella prima università statunitense che mi accolse – mostrai a Ninì la ricca pergamena che avevo appena acquistato da un antiquario, grazie alla solerte segnalazione del comune amico Michele Difonzo. Era il dono di Antonio D’Alesio per il 25º di sacerdozio di suo cognato, Canonico dott. Felice Bolognese (1878-1934), compagno di studi di Eugenio Pacelli all’Almo Collegio Capranica. Don Felice era fratello minore di mio nonno, ragione più che sufficiente per la mia soddisfazione e la gratitudine a Michele Difonzo. Resto molto legato alla memoria di ”zio canonico”, e le ragioni mi distoglierebbero dall’assunto.[1] Torniamo a bomba.
Ninì ammirò la pergamena e mi offrì di ripararne qualche fioritura e incorniciare il manufatto, conscio del mio attaccamento ai cimeli di famiglia. Nel corso dei decenni scorsi, e in coincidenza con i miei ritorni all’ovile, abbiamo rovistato insieme i suoi cassetti nello studio, nel deposito, nel retrobottega dell’ABMC e negli schedari mobili e straripanti della sua mente, ma la pergamena del 1925 si nasconde ancora. Confido che, in sogno, mi rivelerà l’arcano: troveremo.
[1] Basti ricordare qui che ”zio canonico” era pars magna, ossia primario del quartetto di musici e voci che in casa D’Alesio la sera eseguivano arie operistiche: Antonio Marvulli, zio di Ninì al violino, il suocero Settevirtù (Antonio D’Alesio) al mandolino, la moglie Maria D’Alesio al pianoforte e soprano, don Felice tenore, baritono e maestro concertatore. C’era anche il piccolo Michele Marvulli (cugino omonimo di Ninì) aspirante pianista, e il fratellino Mario, che avrebbe poi ispirato Ninì nella passione per il disegno e le arti plastiche. Non di rado, intervenivano altre voci: Nonna Anna (Bolognese) mezzosoprano e il pubblico di parenti e amici, tutti festanti e plaudenti, pena la scomunica minacciata da don Felice.
Ecco intanto un florilegio di episodi che mi piace ricordare, forte della testimonianza di chi ha conosciuto e frequentato Ninì fin da ragazzo:
- Fine anni Trenta-primi anni Quaranta, palazzo Turco, corso Federico, noto anche per i tragici episodi del 1799. L’atrio del portone si prestava al gioco dei Quattro Cantoni, protagonisti i giovani residenti: le sorelle Mina, Ninì e Lucia Losurdo (di madre Marvulli), i cugini Maripì e Ninì Marvulli. Lunghe ore di svago particolarmente gradito durante l’occupazione tedesca e la conseguente paura – ma anche il divieto – di uscir di casa. Durante la seconda guerra mondiale si rifugiò ad Altamura con la famiglia Caterina Baldassarra, figlia del filantropo Filippo, ospitata nello stesso palazzo Turco. Suo figlio Filippo strinse amicizia fraterna con Ninì che nei giochi militari in terrazza diventò “tenente” e per il resto della vita ha chiamato “mio capitano” Filippo Lonero Baldassarra, classe 1927, quindi maggiore di lui di ben cinque anni, anch’egli geloso custode della memoria di Ninì.
- Risale agli anni ginnasiali l’inizio del sodalizio di Ninì con il coetaneo Vito Stasolla. Li univa amicizia fraterna e un gusto per l’avventura che avrebbe fatto arrossire Girardengo. Erano soliti, d’estate, montare in bicicletta, Stasolla ai pedali e Ninì al manubrio – a volte addirittura seduto sul manubrio e con la ruota anteriore tra le gambe penzolanti; così attrezzati – altri direbbe conciati – partivano per Matera dal piazzale antistante il Liceo, superavano in maniera a dir poco aleatoria i gradini e il marciapiede per planare sull’asfalto di via Matera e via fino ai Sassi. I compagni di scuola, persino i più arditi tra loro, li ritenevano evasi da Bisceglie…[2]
Alquanto meno severo fu il giudizio di Vito Stasolla senior, zio del giovane Vito (1932-2021) che colse i due compari nei locali dell’azienda Stasolla mentre assemblavano un marchingegno con motorino elettrico per caricare le cartucce del fucile da caccia. Zio Vito ne lodò l’iniziativa, anche lui tipo estroso e intraprendente, ma appena dopo dovette ricredersi quando, nella stalla dei cavalli, si accorse che mancava la cinghia di cuoio per la staffa del suo cavallo: i due compari l’avevano adattata per far girare il motore caricacartucce. Tornò sùbito da loro e, frustino in mano, gli consigliò di restituire la cinghia alla staffa, per evitare solenni scudisciate…
[2] Solo tre mesi fa sono andato a far visita a Ninì insieme con Franco Stasolla, fratello minore di Vito, e insieme gli abbiamo riferito che nel dicembre del 2021 si è spento a Bari il suo amico Vito, già accademico di Economia e Gestione Aziendale nell’ateneo barese. Ninì non lo sapeva, e Franco non avrebbe voluto recargli dispiacere, conoscendo la sua sensibilità.
3. Intensa fu la frequentazione con il cugino coetaneo Mario Marvulli, architetto, pittore, scultore (1933-1974). Ninì era affascinato dalle sue pennellate rapide, decise; riteneva straordinaria la sua velocità di esecuzione, anche nel plasmare l’argilla, persino ideando senza modello o immagine. Il fratello Michele, musicista rinomato, mi ha procurato la foto di un piccolo busto di Beethoven, plasmato da Mario nel 1954 a Thun, Svizzera, sede operativa del fratello pianista, in una mezza giornata di lavoro, con i due chilogrammi d’argilla procuratigli da lui. Mario era andato a Berna per assistere alla finale dei mondiali di calcio Ungheria-Germania.
4. Durante la seconda metà degli anni Sessanta, neolaureato, iniziai a frequentare Ninì sia in biblioteca che nel suo studio di piazzale Raffaele Laudati: ottimo recapito di studio e residenza per un degnissimo seguace del nostro massimo pittore. Lo studio di Ninì, a sera, era frequentato da validissimi cultori del nostro territorio: Tommaso Berloco, Filippo Gatti, Uccio Giorgio, Michele Difonzo e altri, forse meno assidui, che non ricordo. Io ero di gran lunga il più giovane, certamente quello che aveva tanto da imparare dagli altri. Avevo anche il vantaggio di seguire attentamente le loro partite appassionate di scopa con le carte napoletane: le giocate non mi interessevano affatto, assorbivo sì le novità sugli scavi archeologici, gli sviluppi delle ricerche speleologiche nel ventre della Murgia, progetti di recuperi vari, la storia delle chiese altamurane, incluse quelle non più esistenti, le vicende fridericiane, e affini. Un autentico frontisterio, che l’avventore ignaro avrebbe scambiato per bisca precaria. Mi valevo anche di preziosi incontri occasionali: con don Ciccio Ponzetti nostro coinquilino, don Liborio Acquaviva, nostro vicino di quartiere, cui mi accompagnavo da scolaretto per rincasare dalla biblioteca, il mio Maestro Esposito già garzone di mio padre, don Ciccio Lemma (Ninì ride ancora, scommetterei, della criptica rivelazione fatta a noi due dall’avvocato: capelli dappertutto!…e si riferiva a due signore a noi note, che si contendevano l’Adone di turno e si erano accapellate nella sala d’attesa dello studio legale di don Ciccio prima di essere ricevute).
5. Risale allo stesso periodo, verisimilmente al 1966, un episodio scabroso quanto divertente osservato da Marcello Santoro, mio caro amico fin dalle Elementari. Essendo coinquilino dei Marvulli ed essendosi affacciato al balcone – un giorno d’estate – prima di essere convocato alla mensa del pranzo, Marcello si accorse che la Giulietta di Ninì iniziava a scivolare, non pilotata, verso la discesa antistante la palazzina. A due passi dalla vettura c’era Ninì che guardava le nuvole, ma, accortosi di aver dimenticato di alzare la leva del freno di sicurezza, si precipitò dietro la vettura e, seduto sull’asfalto, cercava di trattenerla aggrappato al paraurti, con evidente tensione sul fondo dei pantaloni: la Giulietta tirava più di lui. Fortuna volle che due passanti accorressero per bloccare la Giulietta dalla parte anteriore. Ninì volle solo assicurarsi che i soccorritori fossero rimasti illesi, senza punto badare al danno evidente subìto dai propri pantaloni.
6. Verso la fine degli anni Novanta Ninì mi raccontò che sua madre, all’epoca quasi centenaria, aveva letto e riletto i miei racconti ambientati in Sicilia, con la bella ed legante copertina disegnata da Ninì; me ne rallegrai molto. Da ragazza la signora Rogges era vissuta a Caltanissetta, dove suo padre era prefetto. Mi riferì anche che avrebbe risolto felicemente il dubbio angoscioso della madre: restavano solo tre sepolcri nella cappella di famiglia al cimitero, ma i candidati erano quattro: la madre temeva che se il Padreterno non si sbrigasse, ne resterebbe esclusa.
Ninì le disse che lui comprendeva appieno il suo desiderio, e che avrebbe comunque provveduto. La madre visse fino al 2012, superati i 111 anni di vita.
7. Durante l’estate scorsa Ninì è stato ospite nel mio studio più volte. In una occasione, le nostre rievocazioni si erano protratte fino all’ora di pranzo, quindi mi sono offerto di accompagnarlo in automobile; gli ho suggerito anche di avvertire i suoi e restare a pranzo con noi, ma ha voluto andarsene poco dopo, a piedi, alquanto malfermo nell’incedere. Alle 14 non era ancora rientrato. Era uscito senza il cellulare, senza avvertire, e sono rimasto perplesso anch’io, perché era trascorsa una buona mezz’ora e sarebbe dovuto arrivare a casa. Catarsi rasserenante: sulla strada del ritorno Ninì si era fermato dal callista, soluzione assolutamente pratica per uno abituato a sognare ad occhi aperti, ma con i piedi – doloranti – a terra.
Riposa con i giusti, Ninì, e ricordaci felice.
Novembre 2023