Altamura 1943: il contesto dell’Inno della libertà di Tommaso Fiore
Ciccio Cirrottola (Francesco all’anagrafe, 1878-1962) era stato in America e, come tanti migranti, non aveva resistito al richiamo della Murgia natìa. Era il più accreditato ad Altamura tra i potatori di viti e alberi da frutto. In quell’autunno del ’43 stava potando gli ulivi e i mandorli nella masseria dell’ing. Nicola Marvulli senior in località Azzoriddo (Yazzəriddə in vernacolo altamurano) quando avvistò un P38-caccia a doppia fusoliera degli Alleati che volava bassissimo verso di lui. Alzò minaccioso l’accetta contro l’aereo che pareva deciso a potare gli alberi con le ali e gli urlò con rabbia: Youssànəmə bitch! – storpiatura dell’imprecazione comunissima ancora oggi nel vernacolo nordamericano. È il vituperio che mette drammaticamente in forse la moralità della madre: figlio di p… Fu notevole lo spavento del bravo Ciccio, ma rimase sull’albero e completò la potatura senza altre sorprese.
Il linguaggio colorito del potatore – con frequenti intercalari newyorchesi – e il ricco repertorio di termini dialettali riferiti alle attività agricole avranno ispirato felicemente suo figlio Gaspare (1907-1994), ginnasiale molto studioso, poi laureato in Giurisprudenza a Milano, docente di Diritto e infine preside dell’Istituto Tecnico a Matera. A lui dobbiamo una ricca raccolta di folklore altamurano accompagnata da una descrizione sistematica del dialetto: Parlә kɔmә t’à ffattә màmәtә, Palo del Colle, Liantonio, 1977. È in corso di pubblicazione una ristampa aggiornata a cura di Vincenzo Basile (Altamura, Arti grafiche Pecoraro), per la quale ho scritto una prefazione.
Dopo la disastrosa Campagna d’Africa, la resa delle forze dell’Asse in Tunisia (13 maggio 1943) e la deposizione del governo di Mussolini il 25 luglio, le truppe tedesche in ritirata approdarono in Sicilia, raggiunte anche lì dalla pioggia di bombe sganciate dagli Alleati. Ne conseguì una crisi devastante di lavoro e di viveri, crisi culminata nella Strage del Pane, nota anche come Strage di Via Maqueda a Palermo il 19 ottobre 1944, che costò la vita a ventiquattro persone e centocinquantotto rimasero ferite. La fase della Liberazione successiva al maggio del ’43 si svolse con tre operazioni distinte, concordate dal Comando angloamericano per la cacciata dei tedeschi dal Mezzogiorno d’Italia. È la fase più caotica di tutta la Liberazione perché da un giorno all’altro gli Alleati dell’Asse diventano i nemici e i nemici sono i nuovi alleati. Agli studenti altamurani delle Superiori era stato imposto di indossare il distintivo con la scritta “Dio stramaledica gli inglesi” e, all’improvviso, quel distintivo cedeva il posto a stendardi “a stelle e strisce”.
Presto in Puglia sarebbero arrivate le truppe alleate dell’Operazione Slapstick. Gli eventi precipitarono dopo l’8 settembre, quando il re abdicò e salpò da Brindisi verso l’esilio.
A ridosso dell’episodio vissuto da Ciccio il potatore, era il 6 settembre, si sentirono a tarda sera gli ululati delle sirene d’allarme, seguiti dal rombo dei motori di uno stormo di aerei degli Alleati. Nel buio sganciarono bombe lungo il Viale Regina Margherita; un ordigno colpì una stalla per i cavalli dell’azienda di Michele Stasolla, annessa alle residenze della famiglia. Fu colpito mortalmente il giovane fattore ventisettenne, Pasquale Panaro (1915-1943). Si era offerto per sostituire alla custodia dei cavalli lo stalliere di turno, impegnato altrove quella notte. Il gesto generoso verso il compagno gli costò la vita; morì dopo la mezzanotte il 7 settembre. Vi furono feriti, ma nessun altro decesso causato dall’incursione aerea. I resti del fattore riposano nella cappella della Famiglia Stasolla al cimitero.
È molto significativo, comunque, che gli Alleati facessero incursioni aeree in Puglia addirittura prima dell’8 settembre.
Le truppe alleate, dopo lo sbarco nei porti di Taranto e di Brindisi, arrivarono ad Altamura da Via Carpentino e si congiunsero con i “berretti rossi”, paracadutisti canadesi arrivati da Gioia del Colle. Le truppe furono accolte ed invitate ad entrare nella città da gruppi sparsi e da altri cittadini che si erano spinti su Via Carpentino, quindi scortate da centinaia di altamurani festanti al Municipio, dalla cui loggia si affacciarono gli ufficiali degli Alleati per ricevere gli applausi calorosi degli abitanti. Il 27 settembre le truppe inglesi entravano a Foggia, mentre, nello stesso giorno, si compiva l’eccidio di Cefalonia, dove furono trucidati o mandati ai campi di sterminio più di cinquemila militi italiani, vittime della situazione caotica e della furia devastatrice dei tedeschi.
Nonostante i gravi disagi, la scarsità di viveri e i rischi notevoli derivanti dalla incertezza dominante, va osservato che la situazione nel nostro territorio era migliorata enormemente rispetto a quanto accadeva al Centro e al Nord del Paese. Basti considerare che sedici mesi dopo la liberazione di Altamura, all’alba del 9 febbraio 1945, veniva fucilato al poligono militare di Verona l’altamurano Paolo Casanova, bersagliere ventunenne accusato di aver collaborato con reparti partigiani per l’accesso a munizioni. Solo sei mesi dopo i genitori di Paolo potettero recarsi a Verona per visitare la tomba del figlio e istruire la pratica burocratica per il trasferimento della salma ad Altamura. Finalmente Giovanni Casanova, titolare del forno di San Domenico in Via Ariosto, tornò da solo a Verona nel mese di aprile del 1947 con una vettura per onoranze funebri e portò a casa la salma del figlio. Furono celebrati i funerali di Stato nella Chiesa di San Domenico il 24 aprile 1947. È un tragico e glorioso episodio di amor patrio di cui dovremo occuparci con doverosa urgenza, anche per scongiurare l’equivoco – oggi in atto, mi consta – che si consolidi nei giovani altamurani l’idea che Via Paolo Casanova (già Via Bernini, domicilio dei Casanova all’epoca del tragico evento) si riferisca a Giacomo Casanova, l’avventuroso scrittore veneziano.
Tommaso Fiore aveva già composto nel 1942 l’Inno della Libertà. Da ardente antifascista e portavoce instancabile dei reduci delusi della prima guerra mondiale, il professore latinista, sindaco di Altamura vent’anni prima, non perdette occasione di dare voce al messaggio di rinnovamento democratico, alla “speranza di cambiare padrone”, come scriveva fin dal 1923. I toni risorgimentali dell’Inno compendiano le aspettative liberaldemocratiche di Fiore, espresse nella protesta corale di un popolo ormai stremato dalle esperienze disastrose dell’ARMIR e delle forze schierate nello scacchiere africano.
Durante l’estate del 1943 un musicista altamurano molto determinato, fermo nel proposito di affermarsi nel mondo della musica, continuava l’esperienza formativa come violino di spalla nel tempio mondiale della Lirica, il Teatro alla Scala. Aveva avuto modo di osservare da vicino direttori del calibro di Victor de Sabata (1892-1967) e Tullio Serafin (1878-1968), premesse preziose per la sua ambizione di salire sul podio della direzione nel futuro prevedibile. Ma la contingenza bellica dell’occupazione nazista e le schermaglie di resistenza armata nelle strade – cui sarebbero seguiti a breve i bombardamenti a tappeto degli Alleati – rendevano rischiosissima la permanenza a Milano, per cui il trentenne Carlo Vitale decise di tornare ad Altamura, affrontando pericoli e ostacoli d’ogni sorta durante il viaggio avventuroso.
Il ritorno a casa risultò provvidenziale: il caso dell’uomo giusto al momento giusto, perché il futuro Maestro Vitale si rivolse a Tommaso Fiore per chiedergli consigli sulla possibilità di essere assunto da un ente musicale a Bari. Al professor Fiore era stato affidato l’incarico di organizzare a Bari, città ormai liberata, il primo congresso dei Comitati di liberazione nazionale (CLN), quindi con geniale quanto pratico guizzo di fantasia Tommaso Fiore propose a Carlo Vitale di musicare l’Inno della Libertà, come contropartita di un probabile ruolo in un ente barese di informazione e svago. Carlo Vitale accolse la proposta con entusiasmo e si rivolse sùbito al giovanissimo e promettente amico pianista Michele Marvulli, appena quattordicenne, perché lo aiutasse con il pianoforte e con la sua bravura nella calligrafia musicale (gli spartiti venivano scritti a mano). Carlo Vitale frequentava quotidianamente casa Marvulli, anche per esercitarsi al pianoforte, non disponendo dello strumento in casa propria.
Ed ecco la novità: la prima esecuzione “mondiale” dell’Inno non fu eseguita al Teatro Piccinni – dove pure venne eseguito in occasione del congresso di cui sopra (28 e 29 gennaio 1944), bensì ad Altamura, per giunta nella casa natale di Saverio Mercadante dove alloggiavano Antonio Marvulli, Maria D’Alesio e i loro quattro figli, incluso il primogenito Michele, ancora oggi attivissimo alla tastiera del pianoforte e testimone prezioso delle novantatré primavere vissute con la musica e per la musica.
Erano tutti antifascisti e fuorusciti gli ospiti in casa Marvulli quel pomeriggio di ottobre del 1943. Si raccolsero nella grande sala in cui si ritrovavano spesso parenti e amici musicisti: Maria D’Alesio sonava il pianoforte per accompagnare il violino del marito Antonio (ho raccontato in MATHERA 21 il consenso alle nozze concesso ad Antonio dal mandolinista Antonio D’Alesio – padre di Maria – previa dimostrazione di capacità redditizia del futuro genero).
Antonio Marvulli (1903-1973) ammirava sinceramente la passione contagiosa con cui il suo amico Felicetto Viscanti (1908-1989) faceva cantare il violino: Antonio si era rifugiato nella musica e, autodidatta, sonava il violino dopo la perdita dell’amato fratello Mario; Felicetto, verisimilmente, aveva appreso la tecnica del violino dal fratello Lorenzo (1901-1942), professore di violino, e aveva raggiunto un livello di padronanza tale da poter impartire lezioni private di violino a Napoli, guadagni utilissimi per mantenersi agli studi di Veterinaria nell’Università. Scontata la presenza dei musicisti protagonisti, dei familiari e di Tommaso Fiore che manifestò tutto il suo compiacimento per l’inno musicato, è lecito congetturare, con doverosa cauzione, la compresenza di Vittore Fiore, figlio di Tommaso, redattore della Gazzetta del Mezzogiorno – unico quotidiano a non aver sospeso mai la pubblicazione – e inviato del giornale, accreditato al congresso di Bari. Non è da escludere la presenza di Giuseppe Laterza, l’editore amico del prof. Fiore e di Benedetto Croce che soggiornava spesso a Bari. C’erano anche protagonisti illustri dell’opposizione al regime fascista, rientrati clandestinamente dall’esilio, ma qui non basta più la congettura, né sopperisce la pur ferrea memoria del Maestro Marvulli, che all’epoca riconobbe soltanto Tommaso Fiore.
Carlo Vitale approdò quindi a Radio Bari, prima emittente libera in Italia, e in quella sede creò l’Orchestra ritmo-sinfonica che avrebbe inaugurato la lunga serie di successi del Maestro. Ricordo con viva emozione le serate vellutate di agosto allietate dalla musica lirica e sinfonica eseguita in Piazza del Duomo in occasione delle feste patronali. Quasi ogni anno era Carlo Vitale a dirigere l’orchestra sul padiglione circondato dalle luminarie. Durante l’anno scolastico ci veniva impartita settimanalmente una lezione di canto corale da Nino Vitale, maestro elementare fratello del Maestro Carlo e poi sindaco della città. La coincidenza dei maestri di musica era motivo di orgoglio per quelli di noi che respiravano musica in famiglia.
Ho avuto il piacere di consultare recentemente Franco Chieco, validissimo redattore culturale e critico musicale della Gazzetta del Mezzogiorno. Nello spazio di un quarto d’ora mi ha donato una sintesi sobria, elegante e assolutamente equilibrata del paradigma musicale di Carlo Vitale, soprattutto del debito molto notevole della Puglia nei confronti del Maestro Vitale. Mi piace ringraziare qui di vero cuore Franco Chieco per l’amabilità con cui mi ha accolto, lucidissimo novantaseienne, e gli auguro lunghi anni ancora di serenità operosa. Nessuno meglio di Chieco ha saputo cogliere l’impatto virtuoso di una coppia di musicisti che hanno dotato la Puglia di una tradizione musicale solo sognata prima del loro sodalizio. Carlo Vitale e Maria De Bellis si sposarono nel 1947:
Una fortuna, per noi, questo sodalizio artistico cementato dagli affetti familiari, con un orgoglio ancestrale. Una “ditta” che non avrebbe mai potuto sfaldarsi. Nei due coniugi si identificavano, quasi un gioco delle parti, il braccio e la mente. Sembravano talvolta agli antipodi. Carlo era solito muoversi con cautela e predicare la parsimonia. Ma si fidava della moglie, ben sapendo che, in ogni caso, le sue scelte erano ineccepibili.
Così racconta Franco Chieco nell’ariosa introduzione al volume “ricapitolativo” commissionato da Annaleda Vitale dopo la morte del padre nel 1989. Aveva settantasette anni.
Nel dopoguerra, verso la fine degli anni ’40 e durante i più sereni e fervorosi anni ’50, Vitale si incontrava spesso nel centro storico di Altamura. Mio padre e suo zio Antonio D’Alesio avevano visto crescere Carlo Vitale, avevano sonato con lui ed altri musicofili la sera, in piazza, chiusi nelle loro botteghe, per lo svago di familiari e amici: dilettantismo puro. I più fortunati tra noi bambini si arricchivano della sapienza pungente di don Ciccio Stasolla, dei suoi versi in dialetto, delle sciarade; ecco un esempio:
hé fattə u’ kundə kəll’abbəsə
e la məgghiérə de tétə mə yé mammə.
Spesso, nelle serate miti, Don Ciccio sedeva autorevolmente davanti all’ufficio dell’azienda Stasolla, in piazza. Era stato compagno di studi di Tommaso Fiore, fino al Seminario di Conversano, ma “Tommasino” aveva poi scelto la strada laica che lo aveva portato a Pisa, nell’aula di Giovanni Pascoli. Recentemente, grazie al nipote omonimo di don Ciccio e mio
carissimo amico, ho avuto modo di leggere le parole di Fiore all’amico mai dimenticato: messaggi di affetto sincero, a volte condito di ironia divertita:
Caro Ciccillo, caro il mio coetaneo, caro il mio compagno di giochi infantili e di studi,
non ti so dire che salto mi fa il cuore a pensare a te, sorridente amico, amico di giochi e di scherzi senza malignità! Avrei dovuto restar sempre costà, di dove tu non ti sei mai spiccicato, mentre io … E anche di te sognavo, Ciccillo caro, speravo che tu un bel giorno buttassi la tonaca alle ortiche… Ma tu hai pensato che era inutile… Sei stato veramente un uomo prudente … una risata basta a riportare il sereno… [Bari, 24 gennaio 1964]
Carissimo Ciccillo,
…… La tua poesia mi è piaciuta per la sua vivacità e, se ne hai altre, mi farai gran piacere a mandarmele….. Il nostro amico …. mi dispiace assai che sia morto di malinconia. Io spero di scoppiare ridendo. …. Tu per esempio saresti capace di farmi morire ridendo. … [Bari, 13 aprile 1966]
Bastano questi stralci inediti per cogliere la nobiltà d’animo di Tommaso Fiore, la tenerezza nel suo senso dell’amicizia. E chi ha studiato il Pascoli intuisce che Fiore lo ebbe maestro.
*Rivolgo un vivissimo ringraziamento a coloro che hanno condiviso con me i ricordi di una vita che nel sogno è sempre più bella, in primis ai lucidissimi ultranonagenari Franco Chieco, Giovanni Bolognese mio piucchecugino, Michele Marvulli cugino e sodale di avventure musicali intercontinentali; ai diversamente giovani Ninì Marvulli, Mimì Bolognese mio fratello maggiore, Franco Stasolla, Annaleda Vitale, Luigi Viscanti e, last but not least, agli iperattivi Fulvio Colafelice, Maria Grazia Melucci, Marcello Vitale, Anna Gervasio e Angela Messina.
Articolo scritto da Giuseppe Bolognese
AVVERTENZA
Questo saggio è apparso il 21 marzo 2023 nel n. 23 della rivista MATHERA. Lo ripubblichiamo qui, su richiesta dell’Autore e su consenso dell’Editore Antros, certi di far cosa gradita ai nostri lettori.
Ottimo l’articolo di Giuseppe Bolognese,
Complimenti vivissimi all’autore.