Presentata l’opera MESTIERI E SOCIETA’ di Gismundo-Marrulli soci Algramà, l’introduzione al volume del prof. Giuseppe Bolognese
Nella Sala Pinacoteca della Fondazione Ettore Pomarici Santomasi di Gravina in Puglia il 7 dicembre 2023 è stato presentato il libro MESTIERI E SOCIETA’ nel Novecento a Gravina in Puglia con bellissime illustrazioni di Marilena Paternoster. Un’opera – originale si direbbe – scritta da Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli, edito dall’Associazione culturale Algramà. Ha partecipato all’evento il neo Presidente di Algramà Giacomo Scalera. Il Presidente Onorario del sodalizio avv. Gianni Moramarco e il prof. Franco Laiso hanno tenuto una relazione sulla valenza culturale dell’impresa. Ha moderato i lavori la bravissima giornalista di Telenorba dott.ssa Maria Liuzzi. Sono seguiti gli interventi del Presidente della Fondazione prof. Filippo Tarantino e del Presidente dell’Associazione Gravinae Nativitas prof. Domingo Mastromatteo. Ha concluso i lavori l’Assessore comunale agli antichi mestieri dott.ssa Marienza Schinco, motore incoraggiante degli eventi gravinesi.
Cogliamo l’occasione per pubblicare l’introduzione al volume dei due algramini Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli, scritta dal prof. Giuseppe Bolognese anch’egli socio Algramà, nato ad Altamura e di origini gravinesi:
[…] È impresa nobile e della massima utilità pubblica recuperare la memoria di una usanza, di un modo di dire, di un evento epocale, di un canto, di un proverbio, di un rito o addirittura di un mestiere ormai desueto e quindi dimenticato da buona parte dei viventi più anziani: significa integrare la nostra Storia, conoscerci meglio e quindi progettare un futuro più consapevole e felice per i nostri discendenti. La Storia, a ben vedere, è l’insieme delle testimonianze tramandate di generazione in generazione; quando manca un anello nella sequenza tramandata, ne risulta l’impoverimento della generazione successiva, e il vuoto può solo imputarsi al comportamento neghittoso di chi, avendone gli strumenti, si sottrae coscientemente al dovere di tramandare gli elementi costitutivi della società in cui vive, dal cui retaggio trae il proprio benessere sia fisico che intellettuale.
La Storia siamo noi – cantava De Gregori nel 1985 – …siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo. / La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso. Ebbene, mai come oggi, nell’intreccio drammatico della storia mondiale, spetta a noi rivendicare il privilegio di essere Storia: ma ci tocca anche l’obbligo sacrosanto di conservare e trasmettere la nostra Storia a futura memoria. “La mia quasi fissazione: – scriveva don Diego Carlucci nella presentazione dei due volumi di ricordi Atturne a la frascère (Attorno al braciere), Arti Grafiche Pecoraro 2009 – salvare la nostra cultura, raccoglierla con pazienza e, quindi, tramandarla”.
Ho voluto giustificare l’impresa, in premessa, per spiegare il vivo compiacimento che mi offre l’invito a presentare una raccolta di trentatré interviste su altrettanti mestieri, ragionate e collocate nel contesto sociale dei primi settant’anni del Novecento gravinese, esperienze condivise in larga misura da tutto il nostro territorio murgiano. Con il rischio di tediare il lettore, aggiungo che i miei avi sono nati e vissuti a Gravina in Puglia fino a tutto il Settecento, insieme con altre dinastie di costruttori-muratori (Chierico, Gramegna e certamente altre, stante la forte, crescente richiesta di artigiani dalla vicina Altamura). La mia attuale dimora altamurana nel cuore del borgo medievale fu ricostruita da “cavamonti” gravinesi, di cognome Bruno e titolari di una “tufara” (cava di tufi). Si erano trasferiti ad Altamura verso la metà del Settecento, insieme con i loro congiunti Fratelli Carlo e Lorenzo Bruno eroi del 1799, cui è intitolata una stradina alle spalle della Collegiata di San Nicola de’ Greci. Giovanni Bruno, nipote del maccaronaro Vincenzo e figlio del cavatufi Pietro, il 21 maggio 1871 sposò l’altamurana Giovanna Di Gioia sorella maggiore della mia nonna paterna Rosa, ed eccomi allogato nella loro casa. Chiudo l’excursus intermunicipale con altra notizia anagrafica e catastale: circa mezzo secolo fa, a questa mia dimora vennero accorpati due vani già abitati da un arrotino gravinese con il cui figlio, Nicola Napoleone, giocavo da bambino nel claustro (la gnostre).
L’impresa in tandem di Michele Gismundo e Giuseppe Marrulli, arricchita dalle illustrazioni di Marilena Paternoster, si colloca in un periodo di proficuo risveglio per riportare alla ribalta tasselli di storia recente relegati alla penombra quando non addirittura al dimenticatoio. In primo luogo si tratta di raccogliere, documentare e assicurare alla pubblica fruizione dettagli e descrizioni il più possibile accurate di mestieri desueti o dimenticati ma ancora presenti nella memoria dei nati nella prima metà del Novecento. Il metodo è univoco, semplice e inequivocabile: sono stati intervistati i protagonisti dei mestieri catalogati o le persone che hanno fruito i servigi offerti dagli artigiani ambulanti non più viventi. Gli autori hanno quindi commentato e riscontrato i dati servendosi delle risorse bibliografiche disponibili, anche in riferimento alla ricca terminologia dialettale degli strumenti adoperati dagli artigiani. I nomi di battesimo dei Fratelli Bruno sono rimasti ignoti nonostante la precisazione di un altro altamurano nato a Gravina. A lui devo l’integrazione dei nomi: Raffaele Pellicciari, Altamura. Notizie più rilevanti della Città antica, Pecoraro, 1980, seconda ed., p. 124. E parlando di arrotino giova precisare che gli altamurani dicevano u’mulafuerce, dittonghizzando la vocale /u/ della sillaba con accento naturale, a differenza dei gravinesi che conservano la /u/ tonica, non dittonghizzata, sia al singolare che al plurale. Il mestiere di mulafuerce, data l’apparizione quotidiana dell’artigiano nelle strade e nei claustri del borgo antico, ha arricchito la paremiologia altamurana: gli anziani ricordano che l’arrotino rispondeva fuori dai denti alla massaia che si lamentava dell’affilatura carente: nudde me dèh e nudde te fazze…. ossia “un lavoro ben fatto va compensato bene: nulla mi dai e nulla ti faccio”.
Va da sé che il criterio unico e irrinunciabile in uno studio al servizio della Storia è l’oggettiva autenticità dei contenuti, ossia la verità fattuale, non quella soggettiva di chi giudica da lontano. Si impone qui l’analogia con la storia di guerra scritta dai generali strateghi negli uffici di comando e il racconto della stessa azione bellica riferito dai soldati in trincea nelle lettere ai familiari. I brani di quelle lettere censurati dagli ufficiali preposti e resi scrupolosamente illeggibili dimostrano ampiamente l’abisso che separa i due metodi storiografici. Mi piace immaginare “Mestieri e società” alla stregua di un grande canovaccio di mestieri antichi, una passeggiata nella storia, quasi una carrellata cinematografica: come i sei pannelli dipinti da Carlo Levi per Lucania ’61, il telero richiesto al pittore-scrittore dall’amico scrittore-saggista-scenografo-regista-giornalista e divulgatore televisivo Mario Soldati, torinese come Levi. È il mondo, la vita e insomma la Storia di Rocco Scotellaro che si manifesta luminosamente a chi visita il grande manifesto dei vinti alla riscossa nella sala monotematica di Palazzo Lanfranchi a Matera.
E un tessuto di memoria e di immagini si sfoglia in questo volume, che si presta egregiamente alla funzione del telero. Si noti che “el teler” veneto – etimo del termine – significa telaio, non già tela, e pertanto strumento che genera il tessuto-immagine, quindi strumento didattico. È bene il caso di insistere sulla missione di questo libro. Tutto quanto abbiamo detto fin qui riguarda la raccolta di informazioni e immagini e la sistemazione compiuta del materiale. Ancora più determinante è l’applicazione pratica del materiale, ossia la formazione degli scolari di ogni grado. I destinatari ideali di questo materiale, il pubblico da privilegiare, sono proprio i giovanissimi. Il telero di questo volume, lo scenario dei mestieri qui ricostruito va presentato ai più giovani, da ottima risorsa didattica qual è. Non avremo inventato nulla di nuovo, ma avremo sfruttato al meglio la tecnica del palcoscenico greco: agorà kai skené: la piazza, il movimento, la vita che scorre ed evolve, davanti alla scena, al telone, canovaccio statico. Sono del tutto fiducioso delle precise intenzioni degli autori in questa direzione. Mi consta, peraltro, che un progetto consimile ha già dato risultati lusinghieri ad Altamura, dove Il libro illustrato dei mestieri tradizionali di Vito Ciccimarra (LAB Edizioni, 2012) è stato adibito a sceneggiatura per Gli antichi mestieri visti con gli occhi dei bambini della scuola d’infanzia “Vicenti” del quinto Circolo Didattico. Fu proprio Mario Soldati nel non tanto lontano 1990 a farmi notare che quando Pirandello scrive “Non parlo di me” parla solo, sinceramente e spietatamente di se stesso…
È il pretesto facile per concludere con due brevi considerazioni suggeritemi dalla lettura molto partecipata di questo libro. La prima riguarda la mammère, la levatrice, il più nobile dei mestieri, in assoluto. I greci lo chiamavano Maieutica “Maieutiké” e Platone fa dire a Socrate nel dialogo Teeteto che lui, Socrate, esercita la maieutica, ossia che è levatrice di verità, in quanto dialogando con lui gli allievi arrivano alla verità e la partoriscono. Chiara Reale, mia nonna materna levatrice diplomata alla scuola di specializzazione di Portici, fu la levatrice di riferimento di Filippo Baldassarra, ostetrico e filantropo di primissima grandezza.
La seconda considerazione mi porta alla memoria doverosa e compiaciuta di Ninì Langiulli (1933-2020), mio amico fraterno e gravinese di madre altamurana, che questo libro avrebbe letto con interesse e diletto non minore del mio, e con me avrebbe auspicato ampio successo agli autori. […]
Altamura, 21 agosto 2023 Giuseppe Bolognese*
*Già professore di Letteratura italiana, Stilistica comparata e Filologia romanza nelle Università di Kansas, Boston College, Flinders, Adelaide, Bari, Urbino. Premio Pirandello 1992 […]
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Scatto di Carlo Centonze