PER IL RECUPERO DELLA CHIESA RUPESTRE DI SAN BARTOLOMEO A GRAVINA IN PUGLIA
di Giuseppe Bolognese
Premetto che sono ghiotto di fichi, fin da bambino. Ero cresciuto con il racconto – tra i tanti – di mio nonno Michele Colonna che d’estate guidava fiero i quindici nipoti a piedi, in colonna, dal Carmine a via Corato per raggiungere il fondicello con la casetta in contrada Crapulicchio: scorpacciate di frutti colti dagli alberi che lui stesso aveva piantato – specialmente fichi – dal 1890, lunghe bevute d’acqua fresca attinta dal pozzo, poi rientro all’imbrunire, accompagnati dalle lucciole che erano stormi densi di luci d’oro e d’argento. Era stato un ebanista molto apprezzato ma, quasi settantenne, aveva preferito dedicarsi interamente ai nipoti: accordo sinallagmatico di reciproco compiacimento, tanto che nessuno avrebbe mai pensato che i nipoti gradissero le passeggiate più del nonno o, viceversa, che il nonno si divertisse più dei nipoti. Nonno Michele morì nel 1940, ben prima che nascessi io, eppure è come se lo avessi conosciuto e frequentato a lungo. Morì improvvisamente a tavola, una sera, con un fico in bocca, e tanti nipoti erano seduti insieme con lui, come al solito, intorno al lungo tavolo: crisi cardiaca fulminante.
E la chiesa rupestre di san Bartolomeo? C’entra. Fidati, lettore, e continua a leggere. Dopo i racconti di mio nonno con la carovana di nipoti (sogno ancora di essere in colonna con loro) imparai a distinguere i fioroni da tante specie di fichi, certamente dai fikə o dalle fikiètə molto di moda tra i compagni di gioco di indole aggressiva: il dialetto altamurano conserva una ricca gamma di termini per distinguere mazzate da orbi, amorevoli scappellotti, strattoni, pizzicotti: grazie al Cielo non c’era scuoiamento o scorticamento nei nostri claustri… poi seppi del martirio di san Bartolomeo, credo nell’aula delle Elementari. Il Maestro ci raccontava le marce interminabili nella steppa russa, nel ghiaccio allucinante, stremati dalla fame e con brandelli ai piedi per sostituire le scarpe ormai consunte, distrutte. Era la sorte di molte diecine di migliaia di militi italiani mandati allo sbaraglio con le divisioni dell’ARMIR: “Il freddo atroce e la fame davano la sensazione che la pelle si staccasse dal corpo, scorticati come san Bartolomeo”. Il nostro Maestro, ufficiale decorato al valore militare, era tornato vivo, con un piede congelato e schiacciato dalla ruota di un camion militare sgangherato, ma vivo e grato più che mai del dono della vita.
Quando iniziai a studiare la Commedia capii sùbito il nesso tra Poesia e Vita: la prima nutre e arricchisce la seconda. Il fico è già nella prima cantica, ricco e discriminante nell’allegoria dantesca. Nel canto XV dell’Inferno Dante incontra il suo Maestro, Brunetto Latini, che gli profetizza l’esilio, l’odio dei fiorentini nei suoi confronti, vilipendio e ostracismo nonostante l’operato virtuoso di Dante, sì che quel popolo gretto, malvagio e ingrato
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico (vv. 64-66)
Infatti non conviene, non è giusto che il dolce fico nasca tra frutti aspri e acidi. Insomma Brunetto dice che Dante è il dolce fico cui conviene star lontano dai lazzi sorbi che sono i fiorentini. Ricordo la grande soddisfazione che provai nell’apprendere che l’allegoria del fico accomuna culture ben distanti tra loro. Nei testi sacri degli Hindù sono molto frequenti i riferimenti al Ficus religiosa, il fico sacro, l’eterno Ashvattha in Sanscrito, detto anche peepul o peepal: rappresenta l’universo.
Ancora da Dante, prima di studiare le Metamorfosi di Ovidio e poi Pindaro, avrei appreso il mito di Marsia, il fauno sciocco e millantatore che sfida Apollo a suonare l’aulos, il doppio flauto che i Romani chiamavano tibia, strumento che Minerva aveva maledetto, peraltro, perché rischiava di deformarle le gote (Donne, donne, eterni dei.. osserva Figaro). Va da sé che Marsia perse la sfida, e per punizione ci rimise la pelle, letteralmente, perché Apollo lo scorticò vivo.
Siamo nel proemio al Paradiso, canto I, dove Dante invoca Apollo perché lo ispiri con lo stesso vigore con cui soffiò nel corpo di Marsia per estrarlo dalla sua vagina (1), ossia dalla pelle che è l’involucro, la guaìna del corpo.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue (vv. 19-21).
Il 24 agosto, festa di san Bartolomeo Apostolo, si celebra solennemente con riti e sagre nel mondo cristiano. Gli storici, pochi ormai, ricordano l’eccidio di san Bartolomeo a Parigi e in altre città francesi nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1572 in cui, istigati dalla Cattolica Caterina dei Medici, madre del re di Francia, i Cattolici massacrarono circa diecimila Protestanti. L’insegnamento della Storia rimane, non sempre efficace nell’era nostra.
Sappiamo assai poco della biografia di Natanaèle figlio di Talmai (Bar-Talmai in Aramaico), ma quello che leggiamo nel Vangelo di Giovanni basta per capire la sincerità, la risolutezza, la trasparenza e la fede totale dell’uomo. Essendo originario di Cana, è probabile che abbia assistito al miracolo del vino alle nozze, ma non abbiamo nessuna conferma testuale. Però il racconto di Giovanni è inequivocabile. Da Gv I:
[47]Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». [48]Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». [49]Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». [50]Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!». [51]Poi gli disse: «In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo».
Eppure Natanaèle-Bartolomeo aveva risposto secco, ironico e scettico all’invito del compagno Filippo:
[45]Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret». [46]Natanaèle esclamò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi».
Pensa un po’! Bartolomeo precorre di un millennio abbondante il fraterno, reciproco e presunto scetticismo tra altamurani e gravinesi. Immagino le ricche risate che mi farei con Ninì Langiulli se fosse ancora con noi. Ci siamo impegnati fin dal primo incontro una diecina di anni fa a screditare per sempre una rivalità antistorica, ancorché latente nella tradizione. Eravamo ai piedi della scalinata della Biblioteca Finia, davanti alle Quattro Fontane incatenate dai gravinesi per impedire agli altamurani “di fregarsi la fontana per ripicca”. Sentivo la favola per la prima volta – condita con l’ironia divertita di Ninì – e ne ridemmo insieme a crepapelle. Fu l’inizio di un sodalizio fraterno.
Pochi sanno che vi è un nesso felice tra Gravina e il martire scuoiato, stante che il gravinese Pietro Francesco Orsini – vescovo di Benevento, poi papa Benedetto XIII – nel 1698 fece eseguire la seconda ricognizione delle reliquie del martire conservate nella cattedrale di Benevento. Fu la seconda e la più importante delle quattro ricognizioni eseguite nei secoli, sempre a Benevento, sulle tanto dibattute e navigate reliquie di san Bartolomeo: 1338, 1698, 1990, 2001. Le avventure dei resti di san Bartolomeo si prestano a più di un romanzo. Mi piacerebbe narrare la “beffa” dei beneventani che mandano a Roma le reliquie di san Paolino da Nola (il grande amico epistolare di sant’Agostino) assicurando ai romani che erano le ossa di san Bartolomeo…
La sera della festa di san Bartolomeo sono intervenuto insieme con molti amici al concerto di beneficenza nel soccorpo della cattedrale di Gravina in Puglia (sec. XII). Proprio nel giorno della memoria di san Bartolomeo (24 agosto) è stato avviato il progetto per il recupero strutturale della chiesa di San Bartolomeo, ristrutturazione settecentesca di una chiesetta rupestre paleocristiana, probabile locale di supporto della chiesa di san Michele. Siamo sulla cresta rocciosa che domina il rione Fondovito, che fronteggia il quartiere Piaggio (il pagus dei Romani, la Vespa non c’entra), verisimilmente tra i primi insediamenti cristiani, segnatamente i più poveri tra i cristiani. È documentato il pieno gradimento – logico, giusto e prevedibile – da parte di papa Orsini, Benedetto XIII, della dedica del tempio a san Bartolomeo.
Don Giacomo prof. Lorusso, archivista della diocesi, ha invitato gli Amici della Biblioteca Finia ad impegnarsi per il progetto di recupero, accompagnato dalle preghiere in musica eseguite dal trio di archi Tautotes. Sognante e introspettiva, autentico invito alla meditazione è stata la musica nell’ambiente del vasto quanto raccolto soccorpo della cattedrale: serberemo a lungo memoria della carrellata di compositori – una dozzina da Bach a Perosi passando per Caccini, Mozart, B. Marcello ed altri, incluso l’Hallelujah laico di Leonard Cohen. Gli stacchi narrativi di don Giacomo hanno contestualizzato gli edifici e l’ambiente antropico del quartiere Piaggio, decisamente bisognoso e meritevole di rivalutazione. Calzante, certamente magistrale, l’intervento di Maria Valluzzi del Borgo Piaggio che, invitata da don Giacomo, ha detto antiche preghiere popolari nella koiné piaggese miscelata con lingue e suoni arcani non sempre decodificabili, cui non era estraneo l’incantesimo del luogo. Apoteosi della identità culturale del nostro territorio, concetto sancito nel nome del trio di archi, Tautotes, parola che celebra l’identità fin da Aristotele.
E lo spirito di san Bartolomeo ascoltava compiaciuto all’ombra di un fico della gravina…
Ringraziamo Carlo Centonze e Saverio Paternoster per i preziosi scatti allegati a questo articolo
(1) Si noti che vagina e guaìna sono la stessa parola e che è decisamente errato pronunciare guàina, solo che siamo molto clementi con le nostre abitudini…
(2) Sono grato toto ex corde a Mons. Saverio Paternoster per avermi confermato i ragguagli storici e per avermene caldeggiato lo studio. Don Saverio mi informa che è previsto un bilancio di oltre centomila euro per il recupero strutturale della chiesetta; prodighiamoci: è il metodo garantito per agevolare la
rivalutazione di un bene comune e iscriversi nella memoria dei posteri.
Postilla
Recentemente sono intervenuto a sostegno della nobile iniziativa degli Amici della Biblioteca Finia (AlGraMa, 30 agosto) ed ora mi preme aggiungere l’eco altamurana di quei paragrafi.
La prima nota riguarda l’esistenza di una cappella dedicata a San Bartolomeo, che nel 1570 o ancora prima viene demolita e sostituita dal Convento degli agostiniani. Il convento fu soppresso nel 1861 e solo nel 1947 la chiesa annessa divenne parrocchia con il titolo di Santa Maria della Sanità, oggi Parrocchia di Sant’Agostino.
Nella Storia della Città di Altamura di don Vitangelo Frizzale (1755) leggiamo infatti che “solamente per tradizione antica si vuole che due Padri di quest’Ordine [dei Padri agostiniani] teneano in Città un ospizio nella Chiesetta della Pietà, vicino la Chiesa di San Pietro nella strada de’Foggiali…” Annota inoltre il Frizzale che il piccolo stemma sovrastante l’ingresso della Chiesetta della Pietà venne trasferito nel chiostro del nuovo convento dei Padri agostiniani, costruito nel 1570 (il Frizzale trascrive erroneamente 1560) sul sito “di una chiesetta mezza diruta detta di S. Bartolomeo”.[1] L’esistenza della chiesetta è già attestata in un fascicolo del 1461.[2] Risale invece al 1484 la fondazione della Confraternita di san Bartolomeo a Gravina: stando ai documenti in archivio, ne consegue che il culto di San Bartolomeo ad Altamura anticipa la devozione gravinese al martire di Cana.
Il secondo rilievo ci porta nel settore degli idiomatismi, ancora a proposito di Bartolomeo, ma di interesse prettamente altamurano. I nati nella prima metà del Novecento ricordano certamente l’espressione sə n’eggiùtə abbascə ammemé, per dire semplicemente è morto/a, letteralmente è andato giù da Memé, ovvero si è trasferito al cimitero. E qui è opportuno spiegare che Memé è semplicemente la forma vezzeggiativa di Bartolomeo, che nella koiné altamurana diventa Martumué.
Qualche anno fa Don Diego Carlucci, di felice memoria, nella sua rubrica per il periodico diocesano In città (nov. 2014) riferiva che il primo custode del nuovo cimitero di Altamura (1842) fu Bartolomeo Mercadante, detto Memé, da cui l’origine dell’idiotismo tutto altamurano: sapientemente scherzoso perché sdrammatizza un evento assolutamente naturale.[3]
È di tutta evidenza che sono altrettanto efficaci gli idiomatismi consimili sparsi un po’ dovunque: andare a far terra da ceci, to push up daisies, alla Ravəsceddə, abbascə ei pignə, all’arvə di’chiuppə, criar malvas, manger les pissenlits par la racine sono espressioni cariche di allegra ironia sull’evento più sicuro che riguarda i viventi.
Conforta infine constatare che il nome Bartolomeo non scarseggia sul nostro territorio, a garantire la tradizione di tutto rispetto per l’Apostolo.
[1] I brani citati sono a p. 121 dell’edizione curata da Tommaso Berloco, ATA Pro Loco, 1985.
[2] Lo cita Tommaso Berloco, “Le chiese di Altamura”, Altamura, n. 15 (1973), p. 163.
[3] Ringrazio Vito Ciccimarra per avermi fatto notare che il ruolo di custode passò a Vito Mercadante dopo trenta anni di servizio del padre Bartolomeo, quindi i decenni di servizio e l’attestarsi di sə n’eggiùtə abbascə ammemé nel vernacolo spiegano pienamente il nomignolo di Kambəsàndə attribuito alla famiglia di custodi. Aggiungo qui che la nota di Don Diego Carlucci – ricordata sopra – cita un altro modo di dire che, parallelemente al ruolo di Memé, si riferisce al campo di alberi di fico di un certo Ciccio, un tempo contiguo al cimitero, origine di sə n’eggiùtə e’ fichə də Ciccə per dire, appunto, “è morto”