Alla ricerca del valore e dell’unità
È stato necessario che trascorresse del tempo, e tanto anche, per assumere, comprendere e metabolizzare cosa abbia significato per una comunità l’essere stati alti protagonisti di una storia non minore, sia pure provinciale. Il 1799 e i suoi effetti, immediati e più tardivi, hanno costituito e costituiscono tutt’oggi un senso storico-critico dissimile da quanto possano significare figure storiche singole, magari più evocative, talvolta contornate da tratti sfumati nella leggenda, talaltra ancora così povere di documenti e testimonianze da essere irricostruibili. Può essere il caso dei principi , dei reggenti e degli imperatori che raggiungevano province remote anche se ben collegate, più spesso con editti e pergamene che di persona, oppure di persone in carne ed ossa che in tempi antichissimi vivevano nelle nostre zone e che per casualità ed eventi naturali siano finiti al centro di grotte carsiche ricoperti post-mortem di croccanti formazioni calcaree e che si siano conservati per poterci raccontare da chi fosse popolata la nostra ascendenza. A volte capita pure che parlino più chiaramente piccoli reperti antichi o archeologici di quanto facciano documenti scritti, che per forza di cose soffrono di interpretazioni e revisionismi.
Il 1799, invece, racconta soprattutto una vera storia popolare, di nomi che rappresentavano uomini e donne in carne ed ossa, di fratelli, di sacerdoti e insegnanti, di nobili e poveretti inclusi in strati e stati differenti della società del tempo che credevano che una sommossa studentesca, eco di altri moti europei, antesignana di successive forme di protesta, avesse potuto attecchire proprio nelle nostre contrade e più che altrove proprio ad Altamura, e che sarebbe stata in grado di salvaguardare una città, un territorio o più aulicamente un mistico tratto comune di autodeterminazione. E questo sembra ancor oggi essere il punto distintivo cui più per nostalgia sentiamo di appartenere: nelle pieghe di una storia che, srotolandosi, avrebbe condotto ai rumori risorgimentali, si può scorgere il coraggio, l’unità, la difesa della dignità di un popolo che con i Borboni avrebbe troppo tardato a giungere e diventare patrimonio comune, necessario come un respiro, come un pasto come un rassicurante affetto. Comunità, comune, determinazione, dignità: valori già morti?
In tutto questo, il ruolo primario della Regia Università di Altamura deve aver giocato in modo importante, per aver solleticato in tutti gli ambiti della società altamurana quel bisogno di fare barricate, difendersi, lottare, sapere che in quel momento non fosse possibile un qualunque tipo di accordo. I rumori sordi dei cannoni, delle urla e dei carri accatastati in fretta alle porte del paese, degli ordini e dei comandi sibilati al di sopra dei cappelli e delle teste, dei colpi che raggiungevano petti e gambe, non si sentono più. Resta un viale che li commemora tutti e poi i vicoli e i claustri del centro storico dedicati ai più valorosi che sono stati per troppo tempo gli unici e silenti testimoni di queste vicende, a tratti fastidiose. Non dimentichiamo però, che il nome di un martire su una tabella non ha l’odore metallico del sangue, che il respiro esalato alla fine non grida più alcuna rivendicazione, che il disperdersi del ricordo nelle generazioni successive ha arrotondato gli spigoli più acuti dei dolori, che le violenze che ci furono non dolgono più. Nulla è più muto dell’oblio, neppure una lapide dedicata ad uno sconosciuto.
Ma è ancora necessario ricordare quei morti, quei difensori, finanche quei traditori? A che serve spulciare cronache e libri per sapere che gli stessi insegnati in quell’università regia avessero combattuto sulle barricate, come don Nicola Popolizio, canonico e docente di alta latinità, fucilato dai sanfedisti? e che gli altri docenti, de Gemmis, il Ceglia il nostro Luca de Samuele Cagnazzi e Giambattista Manfredi furono esiliati per reato d’opinione? E a che serve sapere che la Restaurazione mise fine alla stessa università e che alcuni ne tentarono una improbabile rianimazione, e che da allora soffriamo di un vuoto culturale, mai più colmato? A che serve? A fare rivoluzioni migliori? A ricostruire un’università sulle ceneri ormai fredde di quella antenata? Questa sì che sarebbe una rivoluzione, un rivoltare l’andamento inesorabile di una storia ce ci vede sempre più opportunisti e meno collaborativi. Bisognerebbe provare.
E come dice il cantore di Napoli, dei suoi colori e delle sue follie, da poco scomparso Pino Daniele: e pruov a vvedè cu ddint all’uocchj o ‘ssole/ e cu e cazon’ rutt’ a parlà e rivoluzion’/ e crid ancor, e crid ancor…/ ricordando a chi lo ascolta che bisogna provare. Provare a parlare di rivoluzione è concesso a chi non teme di guardare il sole negli occhi, che sa che ne soffre la luce , ma che pure non può fare a meno di traguardarla come meta. E chi fa la rivoluzione ha per forza di cose i pantaloni rotti, perché vuole migliorare la propria posizione, la propria condizione, che è di un disagiato che approfitta del tempo della rivoluzione perché ha fame di giustizia e sa che in quel tempo se ne può parlare. E ci crede. Oggi ci manca la forza di affrontare una mancanza di cultura e siamo più disarmati che quegli uomini sulle barricate sulla porta Matera, ma soprattutto ci manca il loro valore e la loro unità. Ritroviamoli!